mercoledì 20 ottobre 2010

Dell'imperfezione dell'amore



Donna Grazia scrive così, di questo suo amante.
La prima volta in cui Nino Stresa mi mancò di rispetto, fu in un ballo. Ero vestita di broccato bianco, quella sera: e il busto del vestito era sostenuto, sulle spalle, da due fasce di brillanti che formavano manica. Egli, Nino Stresa, mi cominciò a guardare, di lontano, poco dopo la mia apparizione nel ballo: e non potei più fare un movimento per passeggiare o per ballare, senza sentire il suo sguardo fermo sovra me. Ora, Nino Stresa ha uno sguardo singolare. I suoi occhi sono semplicemente neri, senz'altro pregio. Ma lo sguardo ha una dolcezza languida e persistente che, talvolta, dopo qualche minuto di contemplazione, pare che si veli di lacrime per una profonda emozione saliente agli occhi dall'imo cuore. Sembra, quando guarda così, Nino Stresa, che tutta la sua anima si dissolva in una intima e malinconica tenerezza, assolutamente contraria alla sua apparenza di bellissimo giovane e di giovane elegantissimo.
 



Davanti la libreria ordinata, brancolo nel buio: cosa leggere, rileggere, stringere fra le mani, annusare, orecchiare,  scarabocchiare, abbandonare sulle ginocchia sonnecchiando al dondolio del treno. Guidata dalla forcella di un rabdomante, la mia matita dalla punta rossa, agguanto la costola de Gli amanti. Sporge dalla fila, prestandosi. Promessa di consolazione. Un carico di sud sulle rotte del freddo, taglio vermiglio su rosso scarico. All’occorrenza, quando tutto sembra troppo limpido, chiarificato a forza di sofisticazioni, un libro può rimescolare l’uvaggio, viatico per la mia stagione all’inferno, quell’ imminente permanenza in luoghi tanto accidentati. Che mi avrebbero ricordato l’imperfezione dell’amore. 

In viaggio verso i misteri di Torino. Un’osteria di fortuna, che non ti aspetti, spunta come un coniglio dal cappello di uno scalcagnato prestigiatore. Un omone tutto d’un pezzo, piemontese dalla testa ai piedi,  sbuca da dietro una dispensa, sospettoso. E rustico, come le montagne incassate dietro le tendine a fiori rosa. Lo sguardo è buono. Le ridono gli occhi, quando parla di vino.  Sono toscana,  lo abbiamo nel sangue il vino, noi toscani, come voi. Sangiovese verso Nebbiolo. Lancio la sfida, genuino orgoglio territoriale. Da una porta in fondo alle scale - le fauci dell’inferno? - arriva un filo di luce: avete la cantina laggiù, sfacciata chiedo. Le parole escono inarrestabili dalla gola, gli occhi si accendono. Senza tante chiacchiere da grillo parlante, mi conduce verso la flebile luce. E’ sicuro del tesoro che nasconde. La porta si apre lamentosa: ora finisco come le mogli di Barbablù. Maledetta lingua, benedette tentazioni. Bagliore d’oro, nessuna traccia di fiamme infernali o zolfo luciferino. La gola è secca, però. Umido e polvere, e tutto il fascino dei luoghi silenziosi, profondi e oscuri, vere e proprie notti murate, il mondo sotterraneo della cantina, dove l’alchimia del vino fa prodigi, oltrepassata la soglia dell’ombra. E il vetro che splende, sotto le  amorevoli cure e i gesti sicuri di queste  mani ruvide che accarezzano la bottiglia come fosse un bambino in culla o una Venere dormiente di Tiziano. Afferrata per il collo, rammenta la pallidissima ninfa di Canova, prona su un canapé: la fragile nuca denudata,  quasi un lascivo invito al bacio. La tocco con la punta delle dita: si erge, turgida, fiera, offrendosi in tutto il suo splendore. Una bordolese dalle pareti spesse, senza etichetta, sbrindellata da frammenti di tempo che ne hanno stracciato le vesti, senza scalfirne l’essenza. Nello sfiorarla, cade una ragnatela, si scopre indolente una spalla:  il sangue rosseggia ancora, il battito si acquieta malvolentieri. Ha deciso di concedersi finalmente ai suoi amanti, così, aristocratica nel sentire, decadente nell’aspetto. Disarmata e disarmante, nella sua arresa cristallinità. La bella addormentata si sveglia. Chiuda gli occhi, e ascolti. Questo vino parla.  Sembra la dama velata con quel calice in mano. Altera e sdegnosa, non ha fatto una gran bella fine. Tento di rabbonire la sorte: roba da far resuscitare i morti! La posa da imbonitore non convince: i miei linguacciuti fantasmi bricconi sghignazzano, spudorati, seducenti. Mistura d’attrazione e sgomento. 



Sovrapposizioni: sei te, proprio te, dentro il bicchiere, che mi scendi giù, a toccarmi l’anima. L’officiante continua a mescere dolore, nella panciuta coppa colma di lacrime, in un banchetto per labbra sole. Arsa da una sete perenne, succhio la tua stentata volontà, lecco le tue gocce, stillate da un cuore sconciato, dense, precipitanti lungo le pareti di vetro. Conforto alle mie labbra screpolate dal freddo e dal languore. Fame di spirito e alcol, nutrimento alle nostre straziate, straviziate abbondanze stremate di stropicciate coperte e violacei rivoli lungo gli angoli della bocca. 





Occhieggia ironico dal profondo, infine risponde all’invito, questo vino. Mi si arrampica dentro, mi avvolge, m’invade con la sua luminosità. In bilico tra il rubino e l’amaranto, impenetrabile dalla facciata, e la purezza granata giù nel profondo, a strapparti lo sguardo. Avvampa le membra con il suo calore, sciogliendo la lingua. Si stropiccia appena gli occhi, e poi vola in alto, superbo, furiosamente odoroso. Fastosa ouverture: rosa e viola appassita, profumo di passato. Traboccante nostalgia, esplosione di ciliegia sottospirito: chiassosa banda di paese. Mai scontato, neanche ad un ascolto sbadato: tabacco, caffè, cuoio. E ombra, una volta abbicchierato. Ci raccomandano di aprire i cassetti della memoria davanti ad un vino così:  i ricordi arrivano senza chiedere permesso. Il bere dovrebbe favorire le dolci amnesie. Questo la memoria l’aizza. Vaniglia e miele ne inteneriscono il portamento austero, da cavaliere medievale. Tessuto di balsami e sospiri d’erbe selvatiche, sangue misto di umori iridescenti. Cioccolato amaro. Intenso, a tratti brutale. Amabili resti sul fondo del vetro rimandano la mia immagine raddoppiata, spremono fuori ciò è nascosto. Emergono dal cristallo terra e cielo, umano e divino. Sinestesie del cuore: quel palato è un imporporato affresco fiammingo in terre nebbiolesche, un San Pietro dolente, popolano santo, incatenato ad un ruolo prestigioso e sconsolante. Vino di terra sulle tavole dei re. Gaudente e triste, annegato nelle note di occhi, naso, bocca. Le parole aperte sul tavolo piroettano al piano di sotto, soccorrevoli. Come promesso. Il sole buono ha ingravidato un’uva prodigiosa, ma una grandine impietosa l’ha ammaccata.  Disarmonie, brusche chiusure: chi ci ha messo quest’asprezza in cuore, in gola?  




Torno alla luce del giorno. 

Ti ho baciato in bocca: sulla lingua, indomita, inebriata di ruggine e calore, veleno e ambrosia, rimarrà il ricordo della complice beva, da fratello d’anima. E la struggente malinconia di un incontro viscerale con un sorso di vita, la tua nella mia, tra parole acri e abbracci felpati di legni resinosi, cadute a precipizio e voli pindarici, contrazioni e contraddizioni. Ubriacature dell’anima.



Forse è per questo che si amano certi vini. E certi uomini. Imperfetti, come l’amore.

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