Puro y duro è demodé.
Il machismo, con codicilli variamente conditi di celolunghismo e celodurismo, è in picchiata. Agonizza, irrimediabilmente. Almeno presso le donne di oggi. Ma qualcuno non si rassegna. E ne tenta la rianimazione, in una sorta di ostinazione meccanica di bergsoniana memoria. Ma, si sa, il gioco del diavolo a molla scatena il riso.
Lungi dall’essere scomparso, il mito del macho si è semplicemente fatto più discreto, meno esibito, sottile. Ma altrettanto velenoso, mefitico. Per le donne, certo, che in molti angoli del mondo subiscono ancora una posizione drammaticamente subalterna fatta di abusi ed esclusioni, ma anche per gli uomini, che restano imprigionati in modelli culturali che pregiudicano loro un incontro paritario, e gioioso, con l’altra metà del cielo.
Il maschilista non è un misogino. Ama le donne. Tutte. Purché stiano al posto loro.
Il maschilista non è un misogino. Ama le donne. Tutte. Purché stiano al posto loro.
Atteggiamenti squalificanti ribadiscono la polarizzazione dei due sessi non in termini di complementarietà, bensì di opposizione. Tu cucini, pulisci casa, allevi figli; io lavoro, guido l’auto, penso alle bollette. Prendo decisioni, quelle importanti. Tipo, quale vino bere. Due persone a metà, assurdamente dipendenti l’uno dall’altro, ancora oggi che i tempi impongono elasticità di vedute e comportamenti.
Vite segregate in ruoli ben definiti sin dall’infanzia ci conducono, oltretutto, ad alimentare relazioni fatte di continui quiproquo nucleari e nonsense, talvolta, esilaranti.
Vite segregate in ruoli ben definiti sin dall’infanzia ci conducono, oltretutto, ad alimentare relazioni fatte di continui quiproquo nucleari e nonsense, talvolta, esilaranti.
Ci sono uomini meravigliosi che con le loro compagne si confrontano, posano la corazza, si svelano, cercano e danno amicizia. L'ultimo, però, è stato avvistato sulla Luna. In cerca del senno, giurano certi beninformati dal tono metallico.
Ma siamo proprio siamo sicuri che gli uomini provengono da Marte e le donne da Venere?!
Uomini. Sediamo da secolo in gruppo intorno ad un tavolo - non importa se rotondo o quadrato - impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incuter timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti soltanto perché c’è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo, alla nostra dignità: al nostro essere per sé, custodito da un simulacro d’acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni:e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo d piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte tanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione e uscire a respirare aria pura. Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo degli altri compagni, attraverso la fessura della celata, che taglia il nostro occhio molteplice riducendolo al filo diritto di una lama, e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia – non appena sguardo con sguardo di nuovo s’ incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano -, e scopriamo che non potremo mai lasciarli. Amiamo in loro, e al tempo stesso odiamo, l’orgogliosa povertà, la sprezzante solitudine. Non c’è bisogno di un re per essere eletti: meglio ancora se i cavalieri si sono scelti fra loro; l’aristocrazia è più grande e invincibile quand’è senza principio. Il modello arturiano può fare a meno di Artù: purché Artù sia entrato nelle coscienze di tutti. L’unico passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato, infatti, la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo dalla maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno.
Alberto Asor Rosa, Da "L'ultimo paradosso"
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