domenica 31 ottobre 2010

Cuscussata aspettando Halloween. Toc, toc....dolcetto o scherzetto?

Giorni frenetici. All’orizzonte l’evento più atteso del mese di ottobre, dedicato alla scoperta di nuovi sapori.
“Femmes à la faim” è andata in scena con “la cuscussata aspettando Halloween”.

Una serata marocchina piena di sorprese per le migliaia di papille gustative che non vedevano l’ora di sedersi alla ricca mensa. Fameliche buongustaie attratte dall’agro-alimentare e dalle produzioni tipiche extranazionali.
Non si crea l’evento e basta, si fa crescere l’interesse verso una cultura che poco conosciamo.
E se è vero che la tradizione di un popolo si impara anche attraverso il suo cibo la cuscussata ha saputo distinguersi per qualità e unicità.
Perché da sempre il cibo è uno degli elementi identitari di una cultura. I luoghi sono espressione di una comunità che nel nostro caso si è manifestata nel piatto in una fantastica esplosione di conoscenze.
Profumi, sapori ed emozioni che abbiamo ritrovato nel cous cous di Lidia e che per la prima volta è diventato l’assoluto protagonista del cibo di qualità.
Cous cous con una base di verdure e brodo, ma con tre carni diverse: pollo, vitello e agnello. Due tipi di condimento, uno più piccante l’atro accompagnato da uvetta, semplicemente delizioso. Il tutto accompagnato da tè alla menta. Ed eccoci tutte a tavola, con Lidia attenta a raccontarci le usanze marocchine.


E’ questo il vero confronto e arricchimento reciproco, tra cibo, cultura e territorio.
E in una sola sera ci siamo appropriate di molteplici culture spaziando dal Marocco all’America in occasione di Hallowen.



Il “dolcetto” di Madame Cousiniere ha fatto da preludio alla notte delle streghe. Un gioioso rincorrersi di colori e di sapori fruttati annaffiati da morbido cioccolato a racchiudere uno squisito pan di spagna in onore di “Femmes à la faim”.

Il simbolo di questa festa nelle mani di PerDiletto: la zucca, svuotata e intagliata come un volto.
Scherzetto, scherzetto, scherzetto.



sabato 30 ottobre 2010

Alziamo le celate


Puro y duro è demodé. 
Il machismo, con codicilli variamente conditi di celolunghismo e celodurismo, è in picchiata. Agonizza, irrimediabilmente. Almeno presso le donne di oggi. Ma qualcuno non si rassegna. E ne tenta la rianimazione, in una sorta di ostinazione meccanica di bergsoniana memoria. Ma, si sa, il gioco del diavolo a molla scatena il riso. 



Lungi dall’essere scomparso, il mito del macho si è semplicemente fatto più discreto, meno esibito, sottile.  Ma altrettanto velenoso, mefitico. Per le donne, certo, che in molti angoli del mondo subiscono ancora una posizione drammaticamente subalterna fatta di abusi ed esclusioni, ma anche per gli uomini, che restano imprigionati in modelli culturali che pregiudicano loro un incontro paritario, e gioioso, con l’altra metà del cielo.

Il maschilista non è un misogino. Ama le donne. Tutte. Purché stiano al posto loro. 

Atteggiamenti squalificanti ribadiscono la polarizzazione dei due sessi non in termini di complementarietà,  bensì di opposizione. Tu cucini, pulisci casa, allevi figli; io lavoro, guido l’auto, penso alle bollette. Prendo decisioni, quelle importanti. Tipo, quale vino bere. Due persone a metà, assurdamente dipendenti l’uno dall’altro, ancora oggi che i tempi impongono elasticità di vedute e comportamenti.
Vite segregate in ruoli ben definiti sin dall’infanzia ci conducono, oltretutto, ad alimentare relazioni fatte di continui quiproquo nucleari e nonsense, talvolta, esilaranti.


Ci sono uomini meravigliosi che con le loro compagne si  confrontano, posano la corazza, si svelano, cercano e danno amicizia. L'ultimo, però, è stato avvistato sulla Luna. In cerca del senno, giurano certi beninformati dal tono metallico.


Sulla responsabilità di mamme, nonne, zie, sorelle, nell'aver cresciuto amorevolmente maschietti puri e duri con costanti operazioni di taglio e cucito degne delle migliori sartine francesi d'inizio Novecento, poi, stendiamo un velo pietoso...

Ma siamo proprio siamo sicuri che gli uomini provengono da Marte e le donne da Venere?!
 



Uomini. Sediamo da secolo in gruppo intorno ad un tavolo - non importa se rotondo o quadrato - impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incuter timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti soltanto perché c’è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo, alla nostra dignità: al nostro essere   per  sé, custodito da un simulacro d’acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni:e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo d piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte tanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione e uscire a respirare aria pura. Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo degli altri compagni, attraverso la fessura della celata, che taglia il nostro occhio molteplice riducendolo al filo diritto di una lama, e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia – non appena sguardo con sguardo di nuovo s’ incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano -, e scopriamo che non potremo mai lasciarli. Amiamo in loro, e al tempo stesso odiamo, l’orgogliosa povertà, la sprezzante solitudine. Non c’è bisogno di un re per essere eletti: meglio ancora se i cavalieri si sono scelti fra loro; l’aristocrazia è più grande e invincibile quand’è senza principio. Il modello arturiano può fare a meno di Artù: purché Artù  sia entrato nelle coscienze di tutti. L’unico passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato, infatti, la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo dalla maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno.  

Alberto Asor Rosa, Da "L'ultimo paradosso"

venerdì 29 ottobre 2010

Donne sull'orlo di una crisi gastronomica


Sarà che il maschio contemporaneo latita assai, sarà che la femmina moderna si è fatta più scafata, com'è come non è, assistiamo attonite ma non troppo ad un costume dilagante che fa la fortuna di ristoratori e gestori di laboratori gastronomici in tutta la penisola e ben oltre.


Sempre più nutrite orde di fanciulle organizzano tour mangerecci privi di qualsivoglia presenza maschile: conditio sine qua non per sbafare senza pudori e spassarsela in allegria. Le puoi trovare ovunque, ormai. Gonfie per il jet lag se si sono arrischiate a salire su un low cost per il tour di rito, trascinando borse stipate di acquisti compulsivi di cibarie e abitini a prezzi stracciati, le suddette non perdono occasione per assaggi e degustazioni.





Sono passati ormai i tempi in cui la gaudente Rossella O' Hara doveva imbottirsi di patate bollite prima di andare alle cene ufficiali perché una fanciulla dabbene doveva cibarsi in pubblico come un uccellino... Le nostre amiche non si vergognano di niente e, il più delle volte, mantengono anche una linea invidiabile. Che siano i primi esemplari di una mutazione genetica? Alla faccia di modelle anoressiche e bambine con i jeans a vita bassa che si nutrono di junk food. Qui si ragiona di gourmet serie e gli chef di tutto il mondo lo sanno che ormai questo settore è alla balia di clienti donne.
                       


Occhio, quindiTrattatele bene e se è il caso ritorneranno!

Madame Bon Appetit

giovedì 28 ottobre 2010

Quando gli esercizi che ti salvano la vita non sono quelli che pratichi in palestra

Una rotazione di 45°- 90° può salvarci dal sembrare affette da valgismo
Anche le più pigre di noi ce la possono fare.








I piedi, e la postura denunciano spesso molti dei nostri malesseri e gli atteggiamenti di sempre ci identificano più di una carta di identità.


 

A volte, però, capita che si insinui un dubbio, ovvero se quegli atteggiamenti ci rappresentino davvero.
Se la risposta è "forse no", combatterli è un fatto di esercizio: basta contrastare gli automatismi.
Non nascondiamocelo: è un cammino faticoso, tanto quanto scalare una montagna.

Ma è altrettanto entusiasmante, perché porta alla ricerca e alla riscoperta di sé.

Basta partire da un esercizio semplice, e poi su su (per la montagna) miracolosamente i piedi riconquisteranno una postura degna di un essere umano...




Ecco due piedini grintosi e volitivi. Sulle scarpe ci sarebbe qualcosa da dire...Ma nessuno è perfetto. Per i fiocchi di troppo rimandiamo alla prossima puntata...

Lady DemiSec

mercoledì 27 ottobre 2010

A Tutto TONDO...



Il tondo ... il cerchio ... che forma splendida!!!!

Vuol dire essere in un bicchiere di vino...



...vuol dire essere una ruota di una bici...


...vuol dire essere in un bicchierino di olio toscano...


...vuol dire essere il tempo, il suo scorrere...


...vuol dire essere una botte di vino...



un chicco d'uva... una torta...


... d'altra parte la vita stessa è un cerchio e non c'è fine...

il nostro stesso corpo non è linea... ma rotondità!!!???


Questo appetisce, incuriosisce, stimola alla ricerca del sé,

di un altro cerchio... di amicizia... di amore... di condivisione!

A presto ... da Madame Cousiniere...

... ma Voi che cerchio siete???

martedì 26 ottobre 2010

Olfatto batte Vista 7 - 5


Forme inermi statiche rigide all'apparenza...
cariche di significato ed emozioni al ricordo...
sussulti di brividi e intreccio di sensazioni...
profumi di vita e passione...
uragano di sensi che si accendono e si attorcigliano.
Sogni silenziosi.
Sogni dimenticati.
Sogni sperati e già avverati.
Sogni.
Gocce di vapore che si trasformano in essenze...
profumi che si espandono e sovrastano i contorni delle linee...
Ad occhi chiusi percezione dell'infinito..
aromi e fragranze raccolte in una cornice...
il ricordo con gli occhi sfuocato è reso ancor più nitido!

giovedì 21 ottobre 2010

Il paesaggio delle dolci colline

Siamo sempre in viaggio.
Un cammino, senza interruzione e senza sosta.
Un viaggio che grazie al cielo ha la capacità di riscriversi con il mutare delle stagioni e con gli anni che passano.
Protagoniste sono sempre loro: le dolci colline del paesaggio toscano che mi appartengono per nascita e che spesso mi entrano nel cuore.  
Come una brava artigiana, precisa e attenta, cerco ogni volta di stabilire un dialogo con questi spazi e con la natura che rappresentano. Una natura tra il vivere e il sopravvivere.
Ogni volta mi spingo oltre, a recuperare i luoghi manchevoli di giudizi o strabordanti di nozioni di chi realmente li ha vissuti. L’importante è usare semplici parole, per raccontare di una natura a volta amica talvolta nemica.
Non è facile condividere queste colline che parlano di eventi piacevoli, divertenti oppure tragici. Il fatto è che alla fine diventi partecipe di una grande ricchezza che si chiama cultura.
E nonostante i cambiamenti queste dolci colline riescono a conservare la magia delle origini, è per questo che cammino.
Cammino per raccontare, perché raccontare è rivivere, riscoprire angoli incontaminati e rivedere finalmente quelle dolci colline.
Solo occhi inesperti, di chi guarda e non osserva, possono trascurare la bellezza di simili espressioni che ci circondano.
E’ un gioco: nemico a tratti, amico quando diventa esperienza, un intreccio straordinario di destini, di fatalità, di curiose coincidenze che ti fanno conoscere persone che ti cambiano la vita.
  

mercoledì 20 ottobre 2010

Dell'imperfezione dell'amore



Donna Grazia scrive così, di questo suo amante.
La prima volta in cui Nino Stresa mi mancò di rispetto, fu in un ballo. Ero vestita di broccato bianco, quella sera: e il busto del vestito era sostenuto, sulle spalle, da due fasce di brillanti che formavano manica. Egli, Nino Stresa, mi cominciò a guardare, di lontano, poco dopo la mia apparizione nel ballo: e non potei più fare un movimento per passeggiare o per ballare, senza sentire il suo sguardo fermo sovra me. Ora, Nino Stresa ha uno sguardo singolare. I suoi occhi sono semplicemente neri, senz'altro pregio. Ma lo sguardo ha una dolcezza languida e persistente che, talvolta, dopo qualche minuto di contemplazione, pare che si veli di lacrime per una profonda emozione saliente agli occhi dall'imo cuore. Sembra, quando guarda così, Nino Stresa, che tutta la sua anima si dissolva in una intima e malinconica tenerezza, assolutamente contraria alla sua apparenza di bellissimo giovane e di giovane elegantissimo.
 



Davanti la libreria ordinata, brancolo nel buio: cosa leggere, rileggere, stringere fra le mani, annusare, orecchiare,  scarabocchiare, abbandonare sulle ginocchia sonnecchiando al dondolio del treno. Guidata dalla forcella di un rabdomante, la mia matita dalla punta rossa, agguanto la costola de Gli amanti. Sporge dalla fila, prestandosi. Promessa di consolazione. Un carico di sud sulle rotte del freddo, taglio vermiglio su rosso scarico. All’occorrenza, quando tutto sembra troppo limpido, chiarificato a forza di sofisticazioni, un libro può rimescolare l’uvaggio, viatico per la mia stagione all’inferno, quell’ imminente permanenza in luoghi tanto accidentati. Che mi avrebbero ricordato l’imperfezione dell’amore. 

In viaggio verso i misteri di Torino. Un’osteria di fortuna, che non ti aspetti, spunta come un coniglio dal cappello di uno scalcagnato prestigiatore. Un omone tutto d’un pezzo, piemontese dalla testa ai piedi,  sbuca da dietro una dispensa, sospettoso. E rustico, come le montagne incassate dietro le tendine a fiori rosa. Lo sguardo è buono. Le ridono gli occhi, quando parla di vino.  Sono toscana,  lo abbiamo nel sangue il vino, noi toscani, come voi. Sangiovese verso Nebbiolo. Lancio la sfida, genuino orgoglio territoriale. Da una porta in fondo alle scale - le fauci dell’inferno? - arriva un filo di luce: avete la cantina laggiù, sfacciata chiedo. Le parole escono inarrestabili dalla gola, gli occhi si accendono. Senza tante chiacchiere da grillo parlante, mi conduce verso la flebile luce. E’ sicuro del tesoro che nasconde. La porta si apre lamentosa: ora finisco come le mogli di Barbablù. Maledetta lingua, benedette tentazioni. Bagliore d’oro, nessuna traccia di fiamme infernali o zolfo luciferino. La gola è secca, però. Umido e polvere, e tutto il fascino dei luoghi silenziosi, profondi e oscuri, vere e proprie notti murate, il mondo sotterraneo della cantina, dove l’alchimia del vino fa prodigi, oltrepassata la soglia dell’ombra. E il vetro che splende, sotto le  amorevoli cure e i gesti sicuri di queste  mani ruvide che accarezzano la bottiglia come fosse un bambino in culla o una Venere dormiente di Tiziano. Afferrata per il collo, rammenta la pallidissima ninfa di Canova, prona su un canapé: la fragile nuca denudata,  quasi un lascivo invito al bacio. La tocco con la punta delle dita: si erge, turgida, fiera, offrendosi in tutto il suo splendore. Una bordolese dalle pareti spesse, senza etichetta, sbrindellata da frammenti di tempo che ne hanno stracciato le vesti, senza scalfirne l’essenza. Nello sfiorarla, cade una ragnatela, si scopre indolente una spalla:  il sangue rosseggia ancora, il battito si acquieta malvolentieri. Ha deciso di concedersi finalmente ai suoi amanti, così, aristocratica nel sentire, decadente nell’aspetto. Disarmata e disarmante, nella sua arresa cristallinità. La bella addormentata si sveglia. Chiuda gli occhi, e ascolti. Questo vino parla.  Sembra la dama velata con quel calice in mano. Altera e sdegnosa, non ha fatto una gran bella fine. Tento di rabbonire la sorte: roba da far resuscitare i morti! La posa da imbonitore non convince: i miei linguacciuti fantasmi bricconi sghignazzano, spudorati, seducenti. Mistura d’attrazione e sgomento. 



Sovrapposizioni: sei te, proprio te, dentro il bicchiere, che mi scendi giù, a toccarmi l’anima. L’officiante continua a mescere dolore, nella panciuta coppa colma di lacrime, in un banchetto per labbra sole. Arsa da una sete perenne, succhio la tua stentata volontà, lecco le tue gocce, stillate da un cuore sconciato, dense, precipitanti lungo le pareti di vetro. Conforto alle mie labbra screpolate dal freddo e dal languore. Fame di spirito e alcol, nutrimento alle nostre straziate, straviziate abbondanze stremate di stropicciate coperte e violacei rivoli lungo gli angoli della bocca. 





Occhieggia ironico dal profondo, infine risponde all’invito, questo vino. Mi si arrampica dentro, mi avvolge, m’invade con la sua luminosità. In bilico tra il rubino e l’amaranto, impenetrabile dalla facciata, e la purezza granata giù nel profondo, a strapparti lo sguardo. Avvampa le membra con il suo calore, sciogliendo la lingua. Si stropiccia appena gli occhi, e poi vola in alto, superbo, furiosamente odoroso. Fastosa ouverture: rosa e viola appassita, profumo di passato. Traboccante nostalgia, esplosione di ciliegia sottospirito: chiassosa banda di paese. Mai scontato, neanche ad un ascolto sbadato: tabacco, caffè, cuoio. E ombra, una volta abbicchierato. Ci raccomandano di aprire i cassetti della memoria davanti ad un vino così:  i ricordi arrivano senza chiedere permesso. Il bere dovrebbe favorire le dolci amnesie. Questo la memoria l’aizza. Vaniglia e miele ne inteneriscono il portamento austero, da cavaliere medievale. Tessuto di balsami e sospiri d’erbe selvatiche, sangue misto di umori iridescenti. Cioccolato amaro. Intenso, a tratti brutale. Amabili resti sul fondo del vetro rimandano la mia immagine raddoppiata, spremono fuori ciò è nascosto. Emergono dal cristallo terra e cielo, umano e divino. Sinestesie del cuore: quel palato è un imporporato affresco fiammingo in terre nebbiolesche, un San Pietro dolente, popolano santo, incatenato ad un ruolo prestigioso e sconsolante. Vino di terra sulle tavole dei re. Gaudente e triste, annegato nelle note di occhi, naso, bocca. Le parole aperte sul tavolo piroettano al piano di sotto, soccorrevoli. Come promesso. Il sole buono ha ingravidato un’uva prodigiosa, ma una grandine impietosa l’ha ammaccata.  Disarmonie, brusche chiusure: chi ci ha messo quest’asprezza in cuore, in gola?  




Torno alla luce del giorno. 

Ti ho baciato in bocca: sulla lingua, indomita, inebriata di ruggine e calore, veleno e ambrosia, rimarrà il ricordo della complice beva, da fratello d’anima. E la struggente malinconia di un incontro viscerale con un sorso di vita, la tua nella mia, tra parole acri e abbracci felpati di legni resinosi, cadute a precipizio e voli pindarici, contrazioni e contraddizioni. Ubriacature dell’anima.



Forse è per questo che si amano certi vini. E certi uomini. Imperfetti, come l’amore.

martedì 19 ottobre 2010

Esperienza emozionale con un piccione: un brivido che vola via…

La vita è un insieme di punti di vista…



Così come l’amore è il congiungersi di due orizzonti che convergono in un unico punto di vista...

Che in un preciso momento provoca un’ emozione, un sentimento, fa scoccare una forte passione…

Un brivido che in un attimo vola via!

Io e il mio piccione osserviamo la casa della parrucca.




Pontedera 19/10/2010 ore 13.00.


Madame Gourmandise